Esodo senza fine di Anna Pozzi.

tratto da Mondo e missione – gennaio 2018

Sono più di un milione e continuano ad aumentare ogni giorno. Sono i profughi del Sud Sudan che si sono riversati in Uganda. Viaggio nei campi che li accolgono nel Nord. Ai confini del nulla.  

Nora ha 16 anni ed è partita da sola. La famiglia l’ha mandata via, l’ha mandata avanti. Meglio la prospettiva di un campo profughi che l’insicurezza di Juba. Meglio vivere in un Paese straniero che morire nell’inferno del Sud Sudan. «Almeno qui posso studiare – sussurra Nora timidamente -. Non c’è nessuno che prova a ucciderti».

Nora è una delle migliaia di ragazzini che si sono uniti al flusso inesauribile di profughi sud sudanesi che continua a riversarsi nel Nord Uganda. È cominciato con lo scoppio della guerra civile nel dicembre 2013 e sembra non finire mai. Sono oltre due milioni quelli che hanno lasciato il Paese. Più della metà si trova in Uganda. E ogni giorno ne arrivano di nuovi.

All’ingresso dell’Imvepi Reception Centre nel distretto di Arua – nel West Nile, nord-ovest del Paese – è appena arrivato un autobus bianco dell’Unhcr, l’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati. Lentamente e in silenzio scendono mamme e bambini, qualche anziano, pochissimi giovani. Non hanno niente con sé. Solo piccole borse. Sono scappati con il poco che hanno potuto.

Ad accoglierli c’è lo staff di Medici senza Frontiere che gestisce la prima accoglienza del Centro. La procedura è consolidata. «Nei mesi scorsi ricevevamo più di duemila profughi al giorno – spiega Shaban Osman, MsF team supervisor – adesso sono molti meno, ma pensiamo che questo calo sia solo temporaneo. Con l’inizio della stagione secca potrebbero riprendere i combattimenti e il flusso di profughi rischia di aumentare di nuovo». Shaban si muove con disinvoltura tra i suoi colleghi che si occupano dei nuovi arrivati in fila verso una prima tenda predisposta per i controlli sanitari: tutti ricevono una compressa per le parassitosi intestinali: poi ai bambini viene somministrato il vaccino contro polio e morbillo; quindi, si passa allo screening per la tubercolosi.

Alcuni bambini piangono. Le mamme sono un po’ disorientate. Sono ancora loro il grosso di quelli che arrivano sin qui: donne e minori che rappresentano l’82% dei profughi sud sudanesi in Uganda. Osman li orienta verso la tenda successiva, dove si raccolgono le loro storie. Parla con gentilezza. E soprattutto parla la loro lingua. «Sono uno di loro – ammette – sono stato profugo anch’io. Sono arrivato qui da bambino nell’89. Quella era un’altra guerra, tra Nord e Sud Sudan, ma le vittime sono sempre le stesse, le persone comuni, innocenti». Osman è cresciuto e ha completato tutto il suo ciclo di studi in Uganda. Si è laureato in tecnologia e logistica. Da un anno e mezzo lavora per MsF. Ed è contento e orgoglioso di restituire alla sua gente un po’ di quello che ha ricevuto.

È una storia che si ripete quella che scompiglia nuovamente queste regioni del Nord Uganda. Corsi e ricorsi di profughi dai Paesi limitrofi, ma anche di sfollati interni e di ugandesi in fuga. Una terra segnata da conflitti intestini, ma anche dal continuo arrivo di gente da fuori. Povera, molto più del resto dell’Uganda, per anni abbandonata e negletta, eppure sorprendentemente accogliente. Qui si sono stratificate ondate successive di gente in fuga dal Sudan durante la guerra tra Nord e Sud, a cui si aggiunge ora l’enorme flusso di disperati che scappano dal più giovane Paese d’Africa, devastato da una guerra fratricida. Solo per pochi anni, questo flusso si è invertito, durante la breve stagione che ha preceduto l’indipendenza del luglio 2011, una stagione di fuggevole speranza che ha indotto migliaia di sud sudanesi a tornare a casa. Per poi ritrovarsi traditi dai leader del loro stesso Paese.

E così tutto è ricominciato di nuovo e peggio di prima. «Oggi molti scappano non solo dalla guerra, ma anche dalla fame», dice Twaha Yabata, nutrizionista di Medical Team International. Ma le due cose sono evidentemente correlate. Complici anche i drastici cambiamenti climatici, oggi in Sud Sudan 5 milioni di persone rischiano di morire per mancanza di cibo, quasi metà della popolazione. «I bambini – fa notare Yabata – sono particolarmente a rischio. Anche perché spesso compiono lunghi e pericolosi tragitti a piedi, durante i quali mangiano quello che trovano. O nulla».

A intervenire immediatamente in questi casi c’è un team di Cuamm-Medici con l’Africa, l’ong padovana che è presente in Uganda da quasi cinquant’anni e che è tornata in West Nile proprio per dare un contributo in questa immane emergenza umanitaria, ponendo come priorità le mamme e i bambini. «Da febbraio a oggi – spiega il dottor Damasco Wamboya, team leader del Cuamm di Arua – ci sono stati segnalati in questo Centro un migliaio di casi di malnutrizione. Noi abbiamo iniziato a operare lo scorso settembre con una presenza fissa, che ci permette di identificare i casi critici e di intervenire subito, fornendo un supporto nutrizionale per una settimana. Dopodiché continuiamo a seguire i profughi anche dopo il trasferimento nei settlement». Senza dimenticare la popolazione locale: «Collaboriamo con 6 distretti e 81 centri sanitari del West Nile, alcuni dei quali sono accessibili anche ai profughi», precisa il dottor Wamboya.

All’interno dell’Imvepi Reception Centre c’è anche un luogo discreto per donne che hanno subito violenza. Sono molte, anche se spesso lo nascondono. Ormai quella dello stupro è un’arma di guerra usata senza ritegno e vergogna anche in Sud Sudan dove sono state violentate migliaia di donne. Ma potrebbero essere molte di più. Purtroppo non sono del tutto al sicuro neppure una volta raggiunti i campi profughi. «Sono sole e sono particolarmente vulnerabili – spiega Richard Okoni, responsabile del Centro sanitario di Siripi – e così, complice spesso l’alcol, c’è chi ne approfitta». Una conseguenza è la maggiore diffusione dell’Aids tra i profughi rispetto alla popolazione locale. «Molti non ne hanno mai neppure sentito parlare…», aggiunge Okoni. E così, anche quando dovrebbero essere finalmente in salvo, queste donne rischiano di dover affrontare un nuovo calvario.

Del resto, i settlement sono luoghi “aperti”, e questo è positivo e negativo al tempo stesso. Immense, sterminate distese di capannucce e casupole che si perdono a vista d’occhio. La politica dell’open door – “porte aperte” – attuata dal governo di Kampala prevede un’accoglienza “diffusa”. E forse non potrebbe essere altrimenti, visto l’enorme numero di profughi, che non vengono “rinchiusi” in campi – se non per i primissimi giorni – ma distribuiti sul territorio. A ciascuno viene assegnato un appezzamento di terreno, consegnato il necessario per costruirsi un riparo e gli strumenti per coltivare la terra. Le Nazioni Unite forniscono razioni di mais (12 kg al mese per persona), fagioli (4 kg), olio, sale e poco altro. Poi, ciascuno si arrangia come può.

Sanità, scuola e servizi sociali sono gli stessi della comunità locale. Che ha messo a disposizione gratuitamente la terra, in cambio dei benefit che ricevono i rifugiati. Non è molto, ma l’atteggiamento, per il momento, sembra più di condivisione che di opposizione.

È l’aspetto che colpisce di più in questo contesto di poveri che accolgono altri poveri. Certo i conflitti non mancano – tra ugandesi e profughi e tra profughi di diverse etnie – ma sono molto limitati. Sembra un miracolo.

Il distretto di Arua ha una popolazione di circa 800 mila abitanti e accoglie 256 mila profughi. In alcuni settlement, quelli in cui i sud sudanesi sono stati trasferiti da più tempo, si fatica a distinguere le abitazioni dei locali da quelle dei profughi. I centri sanitari e le scuole possono essere frequentati da tutti indistintamente. Con grande stress del sistema ugandese, che è già fragile di suo, ma anche con tutte le potenzialità che vengono messe in campo dall’enorme dispositivo degli aiuti.

Lo conferma con molta franchezza anche Robert Titre Apangu, programme coordinator del distretto di Arua, anello di congiunzione tra il governo locale e l’Alto commissariato Onu per i rifugiati, che coordina, a sua volta, l’enorme macchina umanitaria. Una macchina che avrebbe bisogno di molti più fondi: sui 675 milioni di dollari richiesti, ne sono stati stanziati solo il 24%. Ma una macchina che mostra anche molte incongruenze e inadeguatezze. E che sembra presente soprattutto dove è più visibile.

Titre Apangu ha cominciato questo lavoro nel 2009 quando si stava mettendo in atto un vasto progetto di rimpatri assistiti di profughi sud sudanesi che tornavano a casa, in vista dell’indipendenza del Paese. Ora si trova a gestire una situazione ancora più enorme, complessa e drammatica. «La politica del governo – spiega il funzionario – è quella di offrire ai profughi la terra, una carta di identità, libertà di movimento e di lavoro, con l’esclusione dai servizi pubblici e nel rispetto delle leggi del Paese. L’obiettivo è di integrarli prima e meglio possibile con la popolazione locale. È un grande impegno, con alcuni punti critici, come il rifornimento d’acqua a un numero così elevato di persone». Di fronte a un fabbisogno stimato di circa 20 litri al giorno per persona (ma in Italia è di circa 150/200 pro capite) si riesce a farne avere solo 7-8, soprattutto attraverso autobotti, che devono percorrere strade e piste spesso in pessime condizioni. «Si sta procedendo alla costruzione di pozzi – aggiunge Titre Apangu -, ma il processo richiede tempi lunghi ed è più costoso, anche se più sostenibile».

Il tema dell’acqua è cruciale anche per questioni igienico-sanitarie, oltre che per coltivare il piccolo appezzamento che ogni famiglia di profughi ha a disposizione. Una sfida che appare smisurata quando ci si avvicina a settlement come quello di Bidi Bidi, un po’ più a nord, il più grande al mondo con 285 mila profughi. Una visione impressionante. Sembra non finire mai. Qui ci sono anche molti nuer, una delle due etnie maggiormente coinvolte nel conflitto. L’altra, è quella dei dinka, che sono stati mandati altrove. Nonostante il governo ugandese tenda a “mescolare” i rifugiati, dinka e nuer sono precauzionalmente separati. Del resto, le ferite della guerra che si combatte a pochi chilometri di distanza sono ancora ben visibili. Nel corpo e anche nell’anima. Fuori dal cancello della base Onu di Bidi Bidi, un giovane nuer, Nihal, è ansioso di condividere la sua storia. Sulla fronte porta non solo le sei linee di scarificazione che lo rendono immediatamente riconoscibile, ma anche la cicatrice di una ferita. «Mi hanno sparato proprio qui – racconta, indicando il centro della fronte – sono vivo per miracolo!». È arrivato dallo Stato di Jongley, uno dei più settentrionali del Sud Sudan, a migliaia di chilometri da qui. E uno dei più devastati dalla guerra, insieme all’Upper Nile e allo Stato di Unity, ovvero i territori dei pozzi petroliferi, il vero oggetto del contendere di questa nuova orribile guerra. Sembra un po’ perso e inquieto, Nihal. Chissà se tornerà mai a casa. Ci pensa un attimo, alza le spalle e abbassa lo sguardo.

È una prospettiva ancora lontana per questa umanità in sospeso che, non appena ha avuto un Paese, è dovuta fuggire in un altro. La dimensione del futuro sembra assente, se non impossibile in questi settlement. Specialmente in quelli dove i rifugiati sono arrivati di recente, come quello di Palorinya e dintorni. Che sembrano abbandonati da tutti.