Pubblichiamo tratto da Banglanews

Nel grande caos il Vangelo ci solleva di Ferruccio Ferrante 

ItaliaCaritas – marzo 2019

Presidente in due riprese. Prima, e in mezzo, una lunga strada, di sacerdozio e servizio. Tra le tante cose, la berretta rossa, ricevuta da papa Francesco nel febbraio 2015. Francesco Montenegro, 72 anni, originario di Messina, arcivescovo di Agrigento (dunque di Lampedusa, luogo-simbolo di questo inizio di millennio) dal 2008, è stato il primo cardinale a presiedere Caritas Italiana. Ha abbandonato la presidenza a fine 2018, per dedicarsi completamente e pienamente alla sua diocesi, che è terra, mare, isole, approdi, lavoro da trovare, dinamiche sociali da ricucire, legalità da costruire, carità da far fiorire. Un po’ come il resto del nostro travagliato paese.

Eminenza, lei è stato presidente di Caritas Italiana dal 2003 al 2008, poi dal 2015 al 2018. In mezzo, una crisi poderosa, che ha profondamente modificato assetti, problemi e umori delle nostre comunità. Quale cambiamento sociale ha colto come più dirompente? 
Credo che ci sia stato quasi un cambio di rotta. Nei tempi passati già si potevano prevedere segnali di crisi, la si assaggiava. Ma poi la crisi globale del 2008, riacutizzatasi in Europa e in Italia nel 2012, in qualche modo ha fatto rotolare un po’ tutto e un po’ tutti nell’instabilità, nella fragilità, nella frantumazione politica, e nell’assenza di visioni chiare sul cosa fare per reagire, per uscirne. È come quando uno sta facendo un viaggio, un cammino, e a un certo punto smarrisce la strada. Quando ho iniziato non dico che la strada fosse così ben segnata, ma in qualche modo ancora si possedevano strumenti per comprendere e reagire. Poi la situazione è peggiorata e oggi ci ritroviamo in un grande caos, dove davvero mancano i punti di ri ferimento. Mancano anche gli ideali: ognuno difende il proprio (possedimento, interesse, punto di vista) e nessuno è disposto a mettere in comune con gli altri quel che ha.

La Chiesa italiana, e in essa le Caritas, si sono attrezzate in modo adeguato per fare fronte a una povertà sempre più ampia e complessa? 
Sì, credo che ci sia stata una crescita. Anche perché la fortuna della Caritas è di non essere mai stato un ente assistenziale. Già dalla fondazione, da parte di Paolo VI, si usò l’immagine del radar: questo essere radar obbligava a guardarsi attorno. Poi i tempi sono cambiati: all’inizio si parlava un po’ più di poveri e di povertà, poi la frantumazione della coscienza pubblica e lo smarrimento del senso del cammino collettivo hanno portato la Caritas anche a dare debita attenzione – per fortuna, si badi – a quelli che erano i servizi per rispondere alle tante povertà. La differenza si nota. Noi abbiamo sempre la necessità di parlare di poveri, perché il nostro servizio è collegato al Cristo povero. Ma, è chiaro, dobbiamo anche creare servizi, il vino e l’olio del Samaritano li dobbiamo usare. Dobbiamo parlare di progettazione, anche questa è necessaria. Non dobbiamo però restare incatenati, ingabbiati in questa visione. Perché se sapremo parlare di po veri, sapremo vedere quali risposte dare; se parliamo solo di servizi e non vediamo i poveri, allora rischiamo di non sapere perché stiamo facendo quelle cose, quindi diventa abitudine.

Prima il Rei, oggi il Reddito di cittadinanza: anche la politica sembra finalmente essersi accorta dell’urgenza della lotta alla povertà. Slancio sincero, pragmatica presa d’atto o strumentalità elettoralistica? 
Qui forse la mia risposta è “no comment”. Perché siamo ancora in un momento in cui bisogna verificare se quelle che sembrano buone intenzioni siano effettivamente tali. La grande confusione che regna e di cui dicevo, non fa capire se quello che si propone sia chiaramente voluto, o se ci si possa servire di determinate scelte solo per fini non legittimi e sinceri. Credo che ancora debba passare un po’ di tempo per renderci conto di qual è la vera volontà di chi gestisce il potere e il servizio. Senz’altro il fatto che si parli un po’ di più, di lotta alla povertà, può essere positivo, perché non sempre c’è stata attenzione a chi è povero. Però poi cadiamo nelle contraddizioni: parliamo di poveri, ma ne scegliamo alcuni eliminando altri. Mi riferisco ai migranti, che sono poveri: però loro non sembrano rientrare nella povertà. E questo è strano.

Migrazioni nel Mediterraneo: la sua diocesi è stata, per lunghi anni, avamposto di approdo e di accoglienza. Fu persino teatro del primo viaggio di papa Francesco fuori Roma. La tensione solidale che per anni ha animato le comunità locali, e più in generale quella nazionale, è irrimediabilmente sfibrata? 
Adesso si va avanti con grande affanno, sta vincendo la logica della paura, ci sono un nazionalismo e una chiusura che rischiano di diventare davvero una palla al piede. La mia preoccupazione non riguarda soltanto l’accettazione dei migranti, riguarda il fatto che logiche con cui stiamo affrontando il problema della migrazione diventeranno sabbia mobile per noi. Si comincia ad aver paura gli uni degli altri, si fanno proclami a scapito degli altri, si pensa che chi mi viene incontro possa essere pericoloso o non corri spondere a certi canoni. E così l’uomo che può, che sa, che fa, anche se viene dall’Africa, rischia di essere emarginato. Ma la cosa rischia di ripercuotersi anche sugli italiani che verrebbero prima. È stato diviso il mondo in italiani e stranieri, e questo non ci aiuterà a trovare il meglio.

Oggi si parla sempre più per slogan. Da pastore, che interpretazione dà di “prima gli italiani” e “aiutiamoli a casa loro”? 
Sono anziano, ma non è che ci stia capendo granché. Perché in un mondo globalizzato, in cui si condivide tutto sul fronte della comunicazione, si aprono però forbici, diseguaglianze e distinzioni pericolose. Noi facciamo la scelta “prima gli italiani e poi gli altri”, ma se la stessa scelta dovessero compierla in Inghilterra, in Germania, in Francia, in Belgio, “prima noi e poi gli italiani”, ci troveremmo in grossa difficoltà perché molti dei nostri dovrebbero tornare indietro. Se la logica che sto usando con i migranti è la logica che gli altri possono usare nei riguardi dei miei, che cosa succederà? Certo, “aiutiamoli a casa loro”: ma le scelte politiche fino adesso non stanno dimostrando che si voglia fare davvero sul serio, a casa loro… È bello gridare questi slogan dal balcone, ma cosa sta facendo ogni singola nazione, cosa sta facendo l’Europa per “aiutarli a casa loro”? Credo che l’impegno di denaro reso disponibile per i paesi più poveri diminuisca sempre più. Ecco perché dicevo che c’è confusione: è facile gridare slogan, però poi gli slogan non corrispondono alla vita quotidiana.

Il Papa mostra costante attenzione ai nuovi strumenti e contesti comunicativi, sottolineando però che bisogna ripartire dall’idea di comunità come rete fra le persone nella loro interezza. In questo scenario, come può la Chiesa promuovere una carità dotata di rilevanza culturale e mediatica? 
Io penso che sia possibile. Dobbiamo però partire da un concetto. Qualcuno diceva: «Datemi un punto e solleverò il mondo». La Chiesa, se davvero vuole un cambio culturale, il punto ce l’ha già, ed è il Vangelo. Se punta sul Vangelo, il mondo si solleverà. Mentre in questi tempi sembra che anche i cristiani stiano dando più attenzione ad altro e a ad altri, anziché al Vangelo e a Cristo. Allora davvero l’emigrazione diventa una sfida per la chiesa, non può essere solo la paura a reggere. Io l’ho detto fino a stancare, e mi scuso se lo ripeto: se gli altri dovessero pensare che perché son siciliano son mafioso, dovrei starmene chiuso in casa; ma se gli altri dovessero aver paura perché vengo dalla Sicilia, la cosa mi offenderebbe. E allora, perché io devo aver paura degli altri, rifiutando perfino di riconoscerli? A me hanno colpito due frasi che ripeto spesso. Un immigrato mi ha detto: «Perché quando ci incontrate non ci sorridete?». E un altro, un minore, ospite in una casa di accoglienza: «A me quello che manca è la carezza di mia madre». Allora sono esseri umani, e se sono esseri umani bisogna presentarli come tali. E i mezzi di comunicazione hanno la loro responsabilità, basta leggere alcuni quotidiani e alcuni titoli. Però anch’io faccio parte della categoria dei migranti, se penso alla mia gente che se ne sta andando via. Sotto la voce “migranti” metto gli africani, metto gli italiani, metto i brasiliani: siamo tutti dentro lo stesso pentolone.

Se dovesse indicare alle comunità ecclesiali e alle Caritas una priorità urgente, e magari un po’ trascurata, quale indicherebbe? 
Direi che con i poveri non possiamo fare statistiche, perché i poveri sono il cuore del Vangelo. E allora credo che tutte le comunità abbiano bisogno di riprendere il Vangelo in mano. Papa Francesco lo sta facendo ogni mattina da Santa Marta, rileggendo il Vangelo con il cuore e gli occhi puliti. Ma poi occorre essere coerenti con quello che il Vangelo dice: non possiamo strappare le pagine che sono difficili e metterle da parte, scegliendone soltanto alcune. Il Vangelo si prende tutto o non si prende. Io forse esagero quando dico: «Se non so accogliere l’altro, sia italiano sia straniero, io faccio un atto di ateismo, perché in quel momento non riconosco il Cristo». Il fatto però è che Cristo non è presente soltanto nell’Eucarestia, la forma alla quale noi guardiamo in modo speciale, ma anche nel fratello: è strano accogliere Gesù nel pane, e rifiutarlo nel fratello. Questo lo sottolineava anche madre Teresa, quando diceva: «Riusciamo a fare un atto di fede dinanzi a un pezzo di pane, ma non davanti al volto del fratello ». Dobbiamo riportare in campo la cultura dell’accoglienza e la cultura dell’altro non come pericolo, ma come possibile fratello. E quindi come qualcuno di prezioso. Che Dio mi affida e a cui Dio si affida.