di Francesca Ghirardelli tratto da  Avvenire – 19 gennaio 2020

Il portavoce del People’s Peace Movement: «I tentativi di accordo tra taleban e Usa sono solo un gioco come nelle storie di Tom e Jerry. È necessario rendere la popolazione consapevole»  

In fila uno davanti all’altro, un fazzoletto azzurro al collo, marciano per chilometri lungo le strade dell’Afghanistan, attraversando panorami sterminati, piccoli centri abitati e agglomerati urbani. Per loro che si tratti di province governative o sotto il controllo dei taleban, non fa differenza. Piantano le loro tende ovunque e incontrano la popolazione, gli attivisti del People’s Peace Movement (Ppm): si tratta di un gruppo indipendente che dal 2018 chiede il cessate il fuoco e, dopo quasi vent’anni di guerra, finalmente, la pace.

La vigilia di Natale ventisette membri sono stati sequestrati nella provincia occidentale di Farah. «Sono stati rapiti dai taleban, che li hanno trattenuti per 45 ore» racconta al telefono Bismillah Watandost, portavoce del gruppo. «I taleban hanno detto di non averli riconosciuti, ma quando è circolata la notizia del sequestro, i loro superiori hanno dato l’ordine di liberarli», spiega Watandost.

Il Ppm è nato nel marzo 2018 sull’onda emotiva di un attentato suicida allo stadio di Lashkar Gah: 16 civili vennero uccisi e 52 rimasero feriti. «Abbiamo sollevato una tenda della pace e fatto appello alle parti in conflitto perché si fermassero», ricorda Bismillah Watandost. «Centinaia di persone si unirono a noi e in 23 province sorsero tende simili alle nostre. Ma in quel periodo molti tentarono di ostacolarci». Due mesi dopo venne organizzata una spedizione a piedi da Helmand a Kabul, 38 giorni di viaggio. «Alla partenza eravamo 8, a Kandahar 15, poi 70 e alla fine siamo arrivati a Kabul in 150. Abbiamo incontrato il presidente Ashraf Ghani e passato diverse notti di fronte alle ambasciate statunitense, russa, inglese, iraniana, pachistana e dell’Onu per chiedere di non intervenire nel conflitto». Sono seguite marce in 24 province e 80 distretti, attività «finanziate da gente comune, dai membri più benestanti del movimento e da concittadini rifugiati in Usa e Ue, e non pagate dal governo, come invece qualcuno ha accusato».

Chiediamo al portavoce del Ppm cosa pensi degli sforzi diplomatici per un’intesa tra taleban e Usa, che nel 2019 era apparsa più vicina che mai: «I tentativi di accordo sono solo un gioco come nelle storie di Tom e Jerry. Imbrogliano la gente comune. È necessario rendere la popolazione consapevole, deve essere in grado di chiedersi: fino a quando ci uccideremo a vicenda?».

Secondo l’Onu negli ultimi dieci anni le persone morte o ferite nel conflitto afghano sarebbero 100.000. Nel Paese si perde la vita per mano dei taleban ma anche sotto i bombardamenti delle forze filo-governative. Lo scorso luglio si è contato il maggior numero di vittime civili mai registrato in un solo mese dal 2009.

Dopo il sequestro di Natale, i membri del Ppm si sono rimessi in marcia. Due settimane fa erano a Kandahar.

A Kabul intanto, in pieno terremoto geopolitico per l’uccisione del generale iraniano Soleimani, si teme di venire trascinati nella crisi, visto che il Paese confina con l’Iran e ospita 13.000 militari Usa. Il presidente Ashraf Ghani ha sottolineato che «il territorio dell’Afghanistan non verrà utilizzato in nessun caso contro un altro Paese».

Tutto serve agli afghani, tranne che si apra un nuovo fronte di guerra.

Foto tratta da Banglanews