di Luca Geronico tratto da Banglanews
«È un conflitto aperto, non congelato», ha dichiarato Geir Pedersen. «L’assenza della Siria dai titoli dei giornali non deve far pensare che il conflitto necessiti di minore attenzione o che la soluzione politica non sia urgente» ha aggiunto il diplomatico svedese, dal 2018 inviato speciale Onu per la Siria. Infatti la sua convocazione, il prossimo 28 maggio a Ginevra, dell’ottava tornata di colloqui tra governo e opposizione sulla modifica della Costituzione ha meritato solo qualche riga nei pastoni diplomatici. In fondo nulla di sorprendente: dal 2011 l’estenuante mediazione di Kofi Annan, Lakhdar Brashimi e di Staffan de Mistura, tutti dimissionari prima di Pedersen, non ha prodotto che bozze di documenti di dubbia efficacia. Ma intanto, uscita dai riflettori con la riconquista di Raqqa al Daesh nell’ottobre del 2017, la guerra civile siriana non si è mai interrotta: gli obiettivi militari del regime devono ancora essere perseguiti mentre prosegue la repressione di quel che resta della società siriana perpetrata dal regime baathista con il sostegno della Russia. Al di fuori della morsa di Damasco resta il Rojava, tentativo di autogoverno democratico a trazione curda e Idlib. L’ultima provincia ribelle, ricettacolo di tutte le opposizioni – jihadiste e non jihadiste – ad Assad, si è tramutata nell’esplosivo catalizzatore degli interessi regionali antagonisti al trinomio Teheran-Damasco-Mosca. Un girone infernale e una incubatrice di nuove tensioni destinate ad esplodere. Non a caso nell’ultimo governatorato ribelle – dopo gli assedi medievali e le evacuazioni forzate di Hama, Homs, Aleppo e la Ghouta di Damasco – si sono rifugiati, per trovarvi poi la morte, pure il califfo del Daesh Abu Bakr al-Baghdadi (ucciso a Barisha il 27 ottobre 2019) e il suo successore Abu Hasan al-Qurahishi (ucciso in un raid Usa ad Atmeh il 3 febbraio 2022). La Turchia, arcinemica di Assad e dei curdi del Pkk riparati nel Rojava, è il quarto incomodo del caos siriano. La violenza che si cova nei campi profughi di Idlib, come il terrore di essere vittima di attentati di cellule in sonno del Daesh mentre nelle carcere del regime continuano morti e torture, fanno della Siria il cimitero dei diritti umani. Le 500mila vittime stimate dal 2011 (almeno 160mila i civili) sono solo una dei termometri della sofferenza che vive il popolo siriano. A questa guerra civile dimenticata, e incancrenita, spetta sempre il triste primato di peggiore crisi umanitaria al mondo con 6,8 milioni di rifugiati all’estero e 6,2 milioni di sfollati interni. Morte e distruzione, che preparano nuove guerre. Secondo l’Osservatorio nazionale siriano per i diritti umani, le forze militari Usa – dopo anni di disimpegno dalla regione – stanno ampliando la loro presenza nel Nord e nel Nord-est inviando rinforzi e mezzi in due basi lungo l’Eufrate: una a Tabqa nella regione di Raqqa e una a Manbij nella regione di Aleppo. Intanto la presenza militare russa nella Siria nord-orientale si è estesa in questi mesi nella zona di Qamishli e Hassaké, in aree limitrofe a quelle dove sono stati dispiegati i militari Usa. La terza guerra mondiale a pezzi continua.