Articolo tratto da Banglanews di Luca Geronico

Betoniere sui ponti per “posti di blocco lampo” a Erevan: da domenica in Armenia l’opposizione è scesa in piazza per chiedere le dimissioni del premier Nikol Pashinyan.

Come in ogni gioco del domino che si rispetti, la crisi in Ucraina sta spostando le intricatissime tessere in Nagorno-Karabakh, il più dimenticato dei conflitti nell’Est Europa.
«La comunità internazionale chiede all’Armenia di ridurre le richieste» sul Nagorno Karabakh ha affermato la scorsa settimana davanti al parlamento il premier armeno. Un esplicito invito – dopo due giorni di negoziati dal 24 al 26 marzo – ad accettare la proposta russa di deescalation.

La crisi in Nagorno-Karabakh – regione a maggioranza armena contesa sin dalla rivoluzione russa del 1917 tra Armenia e Azerbaigian – riesplosa con una serie di ricorrenti conflitti a bassa intensità dopo il crollo dell’Urss a fine anni ’80, ha raggiunto due anni fa un fragilissimo equilibrio con 2mila soldati russi a monitorare confini incerti o ancora da riconoscere.

Sono passati 587 giorni da quando, come una fiammata improvvisa, la mattina del 27 settembre l’esercito azero lanciò missili contro Stepanakert, la principale città del Nagorno Karabakh: un mese e mezzo di guerra con la Russia a sostenere l’Armenia e gli armeni del Nagorno e, dall’altra parte, la Turchia a supportare l’Azerbaigian impassibile ad ogni rivendicazione autonomista. Una fiammata costata più di 5mila vittime prima dell’armistizio del 9 novembre 2020.

Una ferita aperta nel Caucaso che infiamma gli animi: la decisione del governo di Erevan di accettare il nuovo assetto, oltre che rinfocolare le piazze, potrebbe secondo servizi di intelligence scatenare la rivolta popolare degli armeni.


Da febbraio si sono moltiplicate le violazioni del cessate il fuoco nella zona del Nagorno in cui sono dispiegati i peacekeeper russi, in particolare intorno a Khramort con accuse agli azeri di sparare contro la popolazione per intimidirla.

Un rischio escalation che cresce di settimana in settimana, dopo che i cittadini di Khramort sono stati invitati con gli altoparlanti delle forze azere ad andarsene e la città, non è chiaro se per un guasto o un sabotaggio, è senza gas nonostante le temperature ancora rigide.

Gli armeni del Nagorno Karabakh e di Yerevan accusano il governo azero di Baku di voler provocare un esodo forzato con l’intimidazione, l’esclusione da servizi essenziali e le violazioni del cessate il fuoco. Baku nega e ribalta le accuse di violazione del cessate il fuoco alle forze militari del Nagorno.

La vera miccia è scoppiata fra il 24 e il 26 marzo dopo una trattativa fra peacekeeper russi e le due parti: il piano di de-escalation prevede un ritiro dei russi assieme a un disimpegno di alcuni avamposti sia da parte armena che da parte azera.

Gli armeni hanno già liberato gli avamposti, mentre gli azeri – speculando sulla crisi in Ucraina – non solo non si sono ritirati, ma sono avanzati e ora controllano le contese alture di Dasbasi.

La Russia è interessata «a una rapida stabilizzazione il prima possibile» ha fatto sapere il Cremlino. Se Mosca ha fretta, l’Azerbaigian – con il sornione Erdogan di vedetta – lavora a una tregua ancora più vantaggiosa.

CESAR AUGUSTO RAMIREZ VALLEJO da Pixabay